Buongiorno cari lettori, oggi vi propongo la
recensione di un libro che ho voluto leggere fin dal primo momento in cui è
uscito in libreria: Hotel Silence di
Auður Ava Ólafsdóttir.
Come sempre, quando non sono sicura della
lettura, vado in biblioteca perché voglio evitare di spendere soldi per
qualcosa che potrebbe non piacermi.
Qualche anno fa avevo adocchiato un altro
libro di questa autrice, il titolo mi ispirava un sacco ma non ero convinta e
ho sempre rimandato la lettura, questa volta la cover mi ha catturata e la
trama mi ha incuriosita moltissimo così non ho resistito.
Purtroppo Hotel Silence non mi entusiasmata come speravo e, nonostante la
lettura sia stata scorrevole e piacevole, non posso dire di averla amata in
modo completo e totale.
Titolo: Hotel Silence §
Autrice: Auður Ava Ólafsdóttir § Pagine: 200
Casa editrice: Einaudi §
Genere: Drammatico, Riflessivo
Jónas ha quarantanove anni e un talento
speciale per riparare le cose. La sua vita, però, non è facile da sistemare: ha
appena divorziato, la sua ex moglie gli ha rivelato che la loro amatissima
figlia in realtà non è sua, e sua madre è smarrita nelle nebbie della demenza.
Tutti i suoi punti di riferimento sono svaniti all'improvviso e Jónas non sa
piú chi è. Nemmeno il ritrovamento dei suoi diari di gioventú, pieni di appunti
su formazioni nuvolose, corpi celesti e corpi di ragazze, lo aiuta: quel giovane
che era oggi gli appare come un estraneo, tutta la sua esistenza una menzogna.
Comincia a pensare al suicidio, studiando attentamente tutti i possibili
sistemi e tutte le variabili, da uomo pratico qual è. Non vuole però che sia
sua figlia a trovare il suo corpo, e decide di andare a morire all'estero. La
scelta ricade su un paese appena uscito da una terribile guerra civile e ancora
disseminato di edifici distrutti e mine antiuomo. Jónas prende una stanza nel
remoto Hotel Silence, dove sbarca con un solo cambio di vestiti e la sua
irrinunciabile cassetta degli attrezzi. Ma l'incontro con le persone del posto
e le loro ferite, in particolare con i due giovanissimi gestori dell'albergo,
un fratello e una sorella sopravvissuti alla distruzione, e con il silenzioso
bambino di lei, fa slittare il suo progetto giorno dopo giorno...Auður
Ólafsdóttir ha scritto il suo romanzo piú bello, il piú essenziale, tenero e
ironico. Un libro che è un segno di pace, una stretta di mano laica che ci
riavvicina a quanto di umano dentro di noi resiste agli orrori del mondo.
Jónas è un uomo sulla soglia dei cinquant’anni
che improvvisamente ha perso tutti i suoi punti di riferimento.
Dopo più di vent’anni di matrimonio, di cui
otto passati in una situazione coniugale sterile e solitaria, la moglie lo
lascia definitivamente dandogli una notizia incredibile e devastante: la figlia
che Jónas ha cresciuto con tanto amore non è sua!
Per l’uomo è un colpo tremendo, pian piano,
infatti, scopriamo che Jónas era un giovane pieno di sogni, voleva studiare
filosofia e desiderava fare carriera nel mondo accademico ma tutto si infrange
quando la ragazza che sta frequentando saltuariamente gli annuncia di essere
incinta.
Di fronte a ciò Jónas rinuncia al suo
futuro, si fa carico delle proprie responsabilità, prende in mano la ditta di
famiglia e decide di vivere la vita che il destino ha voluto per lui.
Ora dopo più di vent’anni scopre che tutte
le sue scelte e le sue rinunce si sono fondate su una menzogna!
Il dolore e lo smarrimento si fanno strada nel cuore di Jónas e l’idea del suicidio diventa sempre più tangibile.
Il dolore e lo smarrimento si fanno strada nel cuore di Jónas e l’idea del suicidio diventa sempre più tangibile.
Inizia così la ricerca della morte
perfetta: meglio spararsi o impiccarsi? Meglio
annegare o imbottirsi di pillole?
annegare o imbottirsi di pillole?
Jónas si rifugia nei suoi pensieri, fa
ricerche su internet, cerca di capire cosa c’è dietro il desiderio di togliersi
la vita e, alla fine, giunge a una conclusione: non può morire a casa propria perché
la figlia troverebbe il corpo e sarebbe una cosa terribile, meglio partire e
suicidarsi all’estero, di nascosto.
Quale posto migliore di un paese martoriato
dalla guerra?
Con un solo cambio di vestiti e una
cassetta degli attrezzi (utile per fissare il chiodo del cappio al soffitto) Jónas
parte e arriva in un luogo dimenticato da tutti, un luogo di dolore, miseria,
bruttezza, violenza e sofferenza!
Forse non era il paese adatto per compiere
l’atto estremo, tra le macerie delle vite spezzate degli altri, Jónas capisce
che i suoi problemi sono scemenze, bazzecole.
Come può lamentarsi della propria vita
quando ha davanti l’orrore dalla guerra?
Così, a poco a poco, l’uomo arrivato senza
uno scopo trova un suo posto nel mondo, Jónas inizia ad aiutare le persone,
sistema case, mobili e giardini e, man mano che aggiusta i vari oggetti rotti,
aggiusta anche il suo cuore.
Come potete vedere la storia ha un
potenziale enorme, ammalia e chiede di essere letta ma alla fine non prende,
non cattura.
Queste
tematiche così forti vengono trattate in modo superficiale, scorrono troppo
velocemente, non sedimentano.
La
storia narrata sembra una bella favola dove l’uomo distrutto rinasce grazie all’amore
per il prossimo, la ricostruzione degli oggetti rovinati diventa metafora della
ricostruzione dell’animo umano, l’aiuto reciproco permette così la rinascita di
entrambe le parti.
Tutto
ciò è bellissimo, la morale che nel fare del bene si possa ritrovare se stessi
è potente ma, in questo caso, non è credibile.
Nella prima parte del libro ci immergiamo
nello sconforto di Jónas che, nonostante si presenti come un uomo triste e in
difficoltà, non sembra affatto così tormentato da togliersi la vita.
Il suicidio è l’atto finale di un percorso
di dolore esistenziale tremendo, una
grande oscurità che invade la mente e la vita di una persona, un male così intenso e drammatico da togliere il respiro, un dolore sordo che attaglia la persona ogni volta che apre gli occhi.
grande oscurità che invade la mente e la vita di una persona, un male così intenso e drammatico da togliere il respiro, un dolore sordo che attaglia la persona ogni volta che apre gli occhi.
Jónas non è affatto così, è un uomo
smarrito e infelice, su questo non ci sono dubbi ma non così tanto da compiere
un atto così estremo.
Inoltre mi sono chiesta se, una persona
malata a tal punto da voler suicidarsi, possa vedere lucidamente il dolore
degli altri, un depresso ha davvero voglia di interrogarsi? Ha desiderio di
fare bricolage? Trova la forza di aiutare il prossimo?
Non so, non sono proprio convinta.
La
scrittura dell’autrice resta comunque meravigliosa ed elegante, ho apprezzato
moltissimo lo stile asciutto e schietto, a tratti cupo ed estremamente
realistico.
Proprio per questo voglio leggere qualcos’altro
di suo, forse Il rosso vivo del rabarbaro.
Una
nota positiva sono i personaggi femminili estremamente forti: la figlia di Jónas,
sua madre ma anche la proprietaria dell’Hotel Silence.
Donne che hanno visto molto ma che sono
state in grado di darsi pienamente e di accettare la vita, punti fermi e
luminosi in mezzo all’incertezza maschile.
Forse verso la fine un po’ di speranza
aveva invaso il mio cuore e, anche se poco convinta, mi sono lasciata andare ma
poi, di colpo, sono rimasta spiazzata dal finale che lascia confusi e
sconfortati.
In conclusione per me resta un grande “Mah”!
Valutazione
CONOSCI L'AUTRICE
Auður Ava Ólafsdóttir è nata a Reykjavík
nel 1958. Ha insegnato Storia dell'arte ed è stata direttrice del Museo
dell'Università d'Islanda. Per Einaudi ha pubblicato Rosa candida (Supercoralli
2012, Super ET 2014; tradotto in tutti i maggiori paesi europei e negli Stati
Uniti), La donna è un'isola (Supercoralli 2013, Super ET 2014), L'eccezione
(Supercoralli 2014, Super ET 2015), Il rosso vivo del rabarbaro (Supercoralli
2016) e Hotel Silence (2018).
Concordo con quanto hai scritto, temi importanti ma trattati troppo velocemente che scorrono via in una storia a lieto fine, un pochino scontata. Leggibile per carità, ma anche per me non è scattata quella scintilla che di solito mi fa amare un libro.
RispondiEliminaHo apprezzato molto di più altri libri della stessa autrice.
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